Londra Skyline

Se non fosse per l’attuale pandemia che il mondo fatica a debellare, questa primavera a Londra sarebbe stata ricordata come una delle più soleggiate e miti che la metropoli dei bus a due piani e delle cabine telefoniche rosse abbia vissuto negli ultimi anni.

Chi si aspettava un cielo grigio e plumbeo a fare da sfondo a questa situazione “apocalittica” è rimasto quantomeno sorpreso da questo bel tempo così insolito per le primavere londinesi.

Ma è proprio sotto questo cielo insolitamente terso e di un azzurro intenso che la capitale britannica affronta la difficile sfida del Covid-19.

Il numero delle vittime nel Regno Unito ha ormai raggiunto quota 41.700, facendone il Paese che ha registrato più morti, dopo gli Stati Uniti. I casi positivi nel Regno Unito sfiorano i 300.000 e solo a Londra i casi accertati, secondo alcuni giornali, sono circa 27.000 e il tasso di mortalità è risultato essere il doppio di quello registrato nel resto del Paese.

Vetrina di una pizzeria italiana a Londra
Londra, aprile 2020. Una pizzeria italiana convertita in negozio di alimentari. Moltissime attività a Londra si sono dovute adattare alle misure restrittive per l’emergenza Covid-19, puntando sulle consegne a domicilio, sul take-away o vendendo direttamente prodotti di prima necessità.

Così, mentre anche a Londra, come in Italia, si torna ad una prudente riapertura, nel mezzo di questo momento storico così difficile e così distante dalla nostra quotidianità pre-epidemia, scorre la vita dei molti connazionali che per lavoro o per studio hanno deciso di trasferirsi qua.

Sono solo una delle 270 nazionalità che compongono la popolazione della capitale di Sua Maestà, ma secondo alcune stime supererebbero il mezzo milione e rappresentano una delle maggiori comunità italiane fuori dai confini del nostro Paese.

La paura di restare

Nelle prime fasi dell’epidemia sono stati tantissimi quelli che hanno deciso di fare ritorno in Italia. All’inizio con i voli low-cost ancora disponibili prima del lockdown, poi con l’unico collegamento rimasto con la penisola, il volo Londra-Roma di Alitalia. Una sorta di “ponte aereo” in questa situazione di emergenza.

Stando ai numeri della Farnesina sarebbero più di 30.000 gli italiani rientrati dal Regno Unito all’inizio dell’epidemia.

I centralini dell’Ambasciata e del Consolato Generale d’Italia a Londra sono stati letteralmente presi d’assalto, specialmente dopo prime le dichiarazioni del premier britannico Boris Johnson in merito all’immunità di gregge e all’intenzione del governo di non implementare misure restrittive come quelle adottate negli altri Paesi europei.

Ma per chi ha iniziato a costruirsi una vita qui, non sempre è così facile “mollare tutto” e tornare nel Bel Paese.

Alice, 31 anni, dopo aver studiato e vissuto a Miano si è trasferita a Londra da più di cinque anni e lavora come digital content manager.

“Casa mia ormai è qua, anche se fossi tornata Italia non mi sarei sentita del tutto a casa, avrei avuto la sensazione di essere quasi un ospite”.

“Anche se la mia maggiore preoccupazione nel restare nel Regno Unito è quella di non riuscire ad accedere a cure adeguate in caso di necessità, credo che avrei avuto le stesse paure anche in Italia, o in qualsiasi altra parte del mondo”.

“Nelle prime fasi dell’epidemia ho pensato che fosse maggiore il rischio di prendere un aereo e tornare in Italia per poi trovarsi nella stessa situazione, se non peggio. Ho anche pensato al rischio di infettare i miei familiari e conoscenti e alla fine ho deciso di restare qui a Londra”.

 Wandsworth, sud di Londra, aprile 2020. Un negozio espone un cartello a sostegno dei lavoratori del sistema sanitario nazionale e del premier Boris Johnson

Eleonora, 33 anni, lavora per una grande azienda farmaceutica. Anche lei si dice preoccupata per le condizioni del sistema sanitario britannico e critica la posizione presa da Downing Street all’inizio dell’epidemia sulla cosiddetta herd immunity.

“La proposta di raggiungere l’immunità di gregge lasciando diffondere liberamente il virus tra la popolazione, così come era stata delineata dal Governo, avrebbe comportato un rapido sovraffollamento degli ospedali e, di conseguenza, un aumento del numero di vittime”.

“La herd immunity ha senso solo se ottenuta attraverso un vaccino o su un lunghissimo periodo, non lasciando che milioni di persone vengano a contatto con un virus di cui ancora sappiamo davvero poco”.

Ma le preoccupazioni e le paure nel restare lontano dall’Italia interessano anche chi è qua da più tempo.

Nicola, 37 anni, parrucchiere e hair-stylist in una delle zone più “posh” della City, a Londra ci abita da oltre 11 anni e lo scorso dicembre ha anche ottenuto la cittadinanza britannica.

Ammette che avere il passaporto del Regno Unito dà la sensazione di avere “una carta in più” e di sentirsi “più al sicuro” in questa situazione di emergenza.

“Essendo parrucchiere, purtroppo, o per fortuna, lavoro nel mondo del superfluo. Non è considerato ovviamente un servizio essenziale. Il mio capo mi ha telefonato la sera prima dell’inizio del lockdown per dirimi che il mattino seguente non saremmo andati al lavoro.

“Nonostante la chiusura a metà marzo, però, lo scorso mese siamo riusciti a ricevere lo stesso lo stipendio, avendo lavorato a pieno ritmo nelle prime due settimane. A partire da questo mese, invece, avremo l’80% dello stipendio in busta paga”.

Lo schema di retribuzione finanziato dal governo britannico è previsto per i lavoratori di quei settori interessati dalle misure di restrizione per il virus. Downing Street prevede che più di nove milioni di lavoratori saranno licenziati o riceveranno sussidi dallo Stato, tanto che il cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del nostro ministro dell’Economia) Rishi Sunak ha dichiarato che il sussidio sarà reso disponibile almeno per un altro mese fino alla fine di giugno.

Al momento però, per questo e altri settori ritenuti “non essenziali” non sono previste riaperture.

Vista dal ponte di Fulham Railway Bridge

“Alcuni giornali parlano di qualche mese, altri dicono che potremo riaprire a ottobre, ma non c’è ancora nulla di certo”.

“Guardando la situazione di molti colleghi parrucchieri in Italia con cui ho parlato e che non hanno ancora ricevuto nessuno stipendio e nessun aiuto dallo Stato, mi considero davvero fortunato a vivere e lavorare qua”.

Lati positivi di questa quarantena a Londra?

“Forse abbiamo più tempo per pensare e riflettere tra noi stessi capire quali sono le cose davvero essenziali nella vita. Ma c’è anche tempo per fare lunghe passeggiate e scoprire posti nuovi. In questi 11 anni a Londra non ho mai visto così tanti parchi e zone che non sapevo neanche di avere intorno”.

“C’è chi molto positivamente dice che tutto tornerà come prima, come il giorno zero di questa epidemia. Altri hanno invece molta paura di non poter tornare a quella libertà che avevamo. Penso che ci riapproprieremo di quello che abbiamo perso qualche settimana fa, ma ci vorrà tempo”.

Lavoro: tra sussidi e smartworking

Chiara, 31 anni, originaria della Lombardia, lavora a Londra come showroom manager per una azienda italiana di arredamento. Anche se la sede centrale della compagnia ha fermato la produzione e molte fiere ed eventi di settore, come il Salone del mobile di Milano, sono stati rimandati o cancellati, il lavoro in smartworking prosegue a pieno ritmo.

“Attualmente lavoro in remoto da casa e, almeno per il momento, ci sono ancora moltissime richieste e ordini. Certamente i numeri sono più bassi rispetto a prima, ma continuano comunque ad arrivare tantissime richieste dai clienti qui in UK”.

Dal suo punto di vista, “il governo britannico aveva l’esempio di Italia, Spagna e Francia per agire un po’ prima e invece non è stato sfruttato”.

“Il paradosso – spiega – è che c’è stata poca attenzione nelle fasi iniziali, mentre oggi la posizione del governo sembra decisamente più cauta”.

Centro commerciale di Southside a Londra
Londra, maggio 2020. Nei centri commerciali della città tutti i negozi considerati “non essenziali” hanno dovuto chiudere a causa delle misure restrittive legate al coronavirus. Al loro interno rimangono aperti solamente supermercati e farmacie.

Alessio, 28 anni, viene da un piccolo paesino dell’Umbria e si è trasferito a Londra nel 2017 per lavorare come pizzaiolo.

“Poco prima del lockdown – racconta – è arrivata la comunicazione alla catena per cui lavoro riguardo alla chiusura di pub e ristoranti. All’inizio abbiamo tenuto aperto per qualche giorno facendo esclusivamente delivery, ma dopo poco tempo siamo stati costretti a chiudere”.

“Il governo ha dichiarato che pub e ristoranti potrebbero stare chiusi fino all’inizio del 2021. Per ora ci hanno fatto sapere che dovremo ricevere questa sorta di cassa integrazione che garantisce l’80% dello stipendio, ma non sappiamo bene né come né quando arriverà”.

Elisa e Fabiano si sono trasferiti a Londra nel 2015 e da circa tre anni hanno aperto la loro gelateria, premiata come una delle più innovative della città.

Anche per loro all’inizio non è stato facile fare i conti con il lockdown, ma in poco tempo hanno radicalmente convertito il loro modello di attività puntando sulle consegne a domicilio e sul take-away.

Gelateria a Earsfield

“Qua, anche se non nelle stesse modalità di prima, abbiamo la possibilità di continuare a lavorare. Il Governo britannico, oltre a darci tempestivamente un sostegno economico, ci ha permesso di tenere aperto il nostro negozio e di operare sotto la nostra licenza”.

“Da un giorno all’altro abbiamo cambiato il nostro business model a costo zero, sfruttando anche il lavoro e gli sforzi che abbiamo fatto nei mesi scorsi soprattutto sui social, garantendoci un canale diretto con i nostri clienti a livello locale”.

“Inoltre sia la nostra clientela che la rete dei piccoli business del nostro quartiere hanno da subito mostrato un forte senso di solidarietà e si sono tutti resi disponibili ad aiutarci e a sostenerci in questo momento”.

Come spiegano, però, sono stati fondamentali anche gli aiuti garantiti dal Governo per le piccole attività. Aiuti che sono arrivati in tempi rapidissimi dopo l’inizio del lockdown.

“Dopo la chiusura a metà marzo, siamo stati contattati direttamente via mail dal nostro City Council che ci ha chiesto se avevamo fatto domanda per gli aiuti statali. Dopodiché ci è bastato inviare i nostri dati e il numero di conto corrente bancario e in meno di una settimana abbiamo ricevuto i finanziamenti”.

“Questo ci ha permesso di sopravvivere e, in una situazione come questa, ci ha fatto sentire più protetti, consentendoci di continuare a lavorare più serenamente, senza la preoccupazione di non riuscire ad arrivare a fine mese”.

Come loro sono tantissime le attività del Paese che hanno usufruito degli aiuti dello Stato. Basti pensare che nel primo giorno del Bounce Back Loan Scheme, ovvero il piano per aiutare le piccole imprese del Regno Unito a risollevarsi dall’emergenza coronavirus, sono stati approvati oltre 69.000 prestiti.

Solamente nel primo giorno del lancio del programma, le imprese del Paese hanno ricevuto più di due miliardi di sterline in prestiti, con buona parte dei finanziamenti che sono stati erogati nel giro di appena 24 ore dalla richiesta.

Come ha infatti rimarcato lo stesso governo “le piccole imprese saranno la forza trainante della nostra ripresa dalla pandemia, creando posti di lavoro e garantendo la crescita economica”.

Impossibile, quindi, non fare paragoni con la situazione italiana, specialmente dal punto di vista della strategia per il rilancio economico nella fase post-emergenza.

Fermata dell'autobus a Wandsworth, Londra

Guido, 31 anni, vive a Londra da cinque anni. Dopo essersi laureato in una delle più importanti università della City, sta completando un dottorato in economia.

Secondo lui il Regno Unito parte da una situazione economica “decisamente migliore” rispetto all’Italia.

“Hanno un sistema statale molto più snello, un debito pubblico basso, una burocrazia semplificata e più fluida. Questo rende obbiettivamente più facile una ripresa e aiuterà moltissimo soprattutto sul lungo periodo”.

“Certo – ammette – con la Brexit non sarà facile. Alla scadenza ufficiale tra circa sei mesi il Paese si ritroverà con un doppio shock, sia politico che economico”.

Il Governo Johnson ha ribadito più volte che la Brexit si farà ad ogni costo nei tempi stabiliti, nonostante questa pandemia.

Ponte di Tower Bridge a Londra

Proprio la Brexit, che fino a qualche mese fa era la più grande preoccupazione degli italiani a Londra, ora sembra essere passata rapidamente in secondo piano. L’emergenza Covid-19, d’altronde, ha eclissato un po’ tutto qui a Londra, anche questa primavera dal cielo insolitamente azzurro.

Di Andrea Battaglia

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